lunedì 16 marzo 2015

Venerdì

La settimana, lavorativamente parlando, si è chiusa malino: E, io e le nostre clienti siamo uscite dal Gotham city alle tre passate, con solo due ore di ritardo rispetto al prevedibile.
Quelle due ore, poi, le abbiamo passate a parlare di M., di come sta davvero, al netto delle professioni di forza chè io, al contrario di E., non ho con lei un contatto quotidiano e le mani obbligate ai guanti di lattice imbevuti di paraffina, non le avevo ancora viste.
Hanno ragione i medici, ovviamente, lei, ostinatamente elegante, capace di alzarsi più o meno ogni mattina e venire alla sua scrivania, farsi la spesa, spettegolare, è un successo insperato.
Guardano i dati: il tipo di cancro, l'organo colpito, la data dell'intervento, gli esiti degli esami e pensano che lei è fortunata (e loro sono stati bravi). Così quando si lamenta dei sui acciacchi, dei suoi dolori, della sua immane battaglia, le danno consigli pratici, esprimono cortesemente e con (il necessario) distacco, vicinanza emotiva, ma non le danno troppa soddisfazione. Almeno non quella che vorrebbe lei.
Io la capisco, ci sono momenti e persone, addosso alle quali vorresti solo rannicchiarti, anche metaforicamente, per sentirti dire che va tutto bene e tutto andrà bene.
Capisco anche loro, però, per loro, lo ripeto, lei lì è già un successo, lei è l'1%; le mani che sanguinano, lo stomaco che non digerisce, sono circostanze spiacevoli, su cui lavorare, ma non possono non apparire secondarie.
Lei parla giustamente di qualità della vita e loro giustamente pensano che è già tanto averla una vita, nel suo caso.
Non è una gara. Non c'è un punto di vista giusto nè uno sbagliato.
C'è solo una situazione che vorremmo non si fosse presentata mai.
E' passato così il mio venerdì, con la testa persa dietro i ricordi.
Mia nonna, nel suo letto, che si sforza di ridere davanti alle mie esibizioni ingenue di bambina, ma soffre molto e senza speranza, col solo conforto della morfina che suo marito, mio nonno, le somministrava assumendosi un rischio personale, concreto e pesante.
Mia zia, che beneficia di cure quasi incredibili pochi anni prima, il suo trapianto, la speranza vera e poi, l'altalena di sentimenti e non solo di sentimenti. Alla fine, almeno, una seria terapia del dolore.
La Nina, la Nina ed il suo coraggio, la sua forza, la sua serenità, roba che, insieme alle cure, le ha concesso più di un decennio di vita vera: la casa, il marito, i nipoti da vedere crescere, la pizza con i miei, il mio matrimonio, le "gite" in giro per il mondo. Il suo tumore non poteva essere vinto, ma il progresso della medicina ha fatto di lei una malata cronica con alcune limitazioni e molte possibilità e l'ha aiutata fino all'ultimo giorno.
E ora c'è M cui auguro il miracolo.
A me, invece, auguro di crederci

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