lunedì 26 ottobre 2015

La vita degli altri.

C'è una cosa che non ha smesso di frullarmi in testa in questi giorni di scatole e scatoloni, bruschinature selvagge e unghie rotte malamente.
E' una cosa minima che, probabilmente, dà più il senso di quanto sia strana e, diversamente sensibile io, che altro.
Il fatto è questo, mi è capitato di sentire moltissimi commenti negli ultimi tempi su notizie particolarmente intime e personali di alcuni personaggi pubblici.
Cose tipo l'infertilità (o le difficoltà) degli Zuckerberg , il ricovero di Scialpi, col marito lasciato fuori, la giornalista del tg 2 Capulli morta di cancro a 50 anni, l'anoressia della Jolie e via e via.
Ora, non è che delle sofferenze e delle ingiustizie subite da queste persone non mi importi nulla, per carità, però non mi importa abbastanza da rimuginarci troppo sopra, da commentarle o da provare altro che la generica pena che provo per il dolore altrui.
E mi chiedo ma tutti quelli che soffrono o si indignano per Zuckerberg, Scialpi, Jolie, Capulli, non ce l'hanno un conoscente, un dirimpettaio, un collega, un familiare o un amico che si è ammalato, che non riesce ad avere un figlio o abortisce nelle prime settimane, non conoscono nessuno che sia solo nel bisogno, testardo nell'affrontare la sofferenza, incazzato (a ragione) col sistema paese, nessuno che non aspetti altro che un orecchio ed una spalla a cui fare delle confidenze, a cui affidare un po' della propria pena, invece che scriverne sui social, magari dopo averla superata?
Non sarebbe meglio, molto meglio, ed anche più semplice, guardarsi intorno, chè 'ste cose capitano davvero a tutti, e usare la nostra empatia, dove serve, dove può?
Ma davvero l'uscita di queste notizie, in questo modo,  è utile?
Non lo capisco.

martedì 20 ottobre 2015

Nella media ...e una perla di saggezza

Tutto nella media.
Scrivo poco,  quasi nulla, perchè strofino e pulisco come se finalmente, a 45 anni, fossi diventata la figlia di mia madre.
Durerà ancora una quindicina di giorni, forse un mese, poi tornerò quella che sono sempre stata, una per cui il pulito non è una soddisfazione ma una precondizione necessaria: se non c'è fa schifo, ma ottenerlo significa partire da meno un milione ed arrivare a zero, nessun piacere, solo dovere, delegarlo è una vittoria.
Comunque, la casa inizia a prendere vita, il trasloco è imminente e persino Attila e Totila cominciano a gradire.
Non fregherà niente a nessuno, ma è bellissima.
La situazione nel ramo della famiglia allargata che non si smentisce mai è stazionaria: uno si lamenta perchè morirà di tutti gli stenti, murato in casa, lasciato solo con i suoi guai (e senza nemmeno il conforto di un whisky al Roxy bar) e l'altro, in silenzio, cerca di evitare di morire di tutti gli stenti, subissato dalle lamentele per i guai altrui (e senza nemmeno il conforto di un whisky al Roxy bar) .
E poi c'è chi mi dice: sei sarcastica.
Tesoro.
Sono gentilissima, ma non cieca, potrei guarnirla con un barile di zucchero e miele, ma i fatti non cambierebbero.
Unica nota positiva un Attila sorridente e sereno.
Ho chiesto (chè lo so, una si dovrebbe anche vergognare di chiedere il perchè della serenità a un figlio, ma tant'è)
Mi ha detto: "il maestro Massimiliano ci ha fatto meditare, poi ha fatto delle domande ed a me ha detto che se si è sereni si è più forti e più intelligenti. E io ho provato e lo sono mamma, sono più forte ed intelligente, per cui ho deciso di essere sereno"
Quindi, ecco, grazie maestro Massimiliano.
Però mi spiegate perchè, se lo dico io, è come se avesse ragliato un asino e se lo dice lui, allora, è una perla di saggezza?
Che sia il karategi?

venerdì 9 ottobre 2015

Vera. Senza paura

Mi piace essere vera (anche se non sono sicura di sapere cosa davvero possa volere dire e come si faccia).
Mi piace esprimere ciò che penso senza paura.
Naturalmente non parlo della paura di una conseguenza fisica, del timore che possa succedermi qualcosa di spiacevole, quello è un pensiero che non ho mai avuto: da piccina, se qualcuno/a cercava di darmele, le rendevo, dopo i 5 -6 anni l'eventualità non si è mai presentata e francamente faccio anche fatica ad immaginarmela.
Non parlo neanche della paura del confronto, più o meno acceso e rispettoso, non mi piace litigare, ma posso farlo, non mi piace che le cose trascendano e non lo faccio, se la persona con cui discuto non è in grado, posso abbandonare la questione per manifesta superiorità (mia).
Sul web capita spesso, putroppo.
La paura della quale parlo e che ho scoperto ieri sera è quella di svelarmi troppo, di mostrarmi ad un numero imprecisato di persone per questioni che esulano del tutto dal mio lavoro ma che comunque, in qualche modo possano pregiudicare, con l'opinone che chi ascolta può farsi di me, possibilità di contatti o sviluppi professionali.
La paura che servano tatticismi, astuzie, retropensieri (o la capacità di prevederne) che non voglio avere.

venerdì 2 ottobre 2015

Non sono tutte belle le mamme del mondo

Mi capita molto spesso di sentire frasi autoassolutorie che potrei riassumere con l'assunto: le mamme non sbagliano mai, agire in un modo o nell'altro cambia poco, se c'è l'amore di mamma, quello basta.
Ecco, volevo dire, che non è così.
E non mi riferisco a quelle che maltrattano, torturano, abusano, vendono, prostituiscono, ammazzano i figli.
Ai mostri della vulgata popolare, che non si sbaglia, ma neanche si sforza.
Mi riferisco a quelle che li amano, li accudiscono, li curano e così facendo gettano ottime basi per renderli insicuri, pieni di sensi di colpa, arroganti, maleducati, frustrati, aggressivi, passivo-aggressivi, egocentrici, narcisi, fragili, incapaci di accettare se stessi e/o il prossimo, depressi, devastati, inetti alla vita, sofferenti.
A quelle che li educano col bastone e la carota, tra regali e punizioni, senza dialogo, a quelle autoritarie, a quelle che pretendono per amarli che si conformino al loro ideale, a quelle che li vedono come lo specchio su cui riflettere la loro strabordante personalità o che ne fanno il masso su cui poggiare le loro enormi insicurezze, alle bigotte che negano la sessualità fin dalla più tenera infanzia: il corpo in quanto tale come fonte di vergogna, a quelle che picchiano ed a quelle che si vantano di non averli mai toccati, ma li cancellano, li ignorano, li rifiutano se non fanno i "bravi", a quelle che "se fai così, la mamma soffre", a quelle che li spingono all'inverosimile, per piacere alle quali devono eccellere, quelle che li vedono come lo strumento per arrivare dove, loro, con le loro capacità, non sono arrivate, a quelle per le quali devono essere perfetti, a quelle che non sono in grado, a quelle che non vogliono, a quelle che un  figlio è uno strumento di pressione in più, a quelle che l'hanno fatto e questo solo le rende competenti, a quelle che bastano loro e il babbo non conta.
A tutte questo, vorrei dire che no, l'amore di mamma non basta proprio per nulla.
Son cazzate

giovedì 1 ottobre 2015

Cose (frivole) che vorrei

In questi giorni la vita rotola a grande velocità, ci sono cose belle, cose brutte e cose quotidiane.
C'è una brutta, vecchia storia, che sono stata sul punto di raccontare più di una volta, ma ancora non so se è il caso.
C'è una discussione sull'eleganza che forse vale la pena approfondire da queste parti, per fare chiarezza.
Per ora però c'è l'elenco delle cose che vorrei e, per ovvie ragioni, non avrò.
Quindi, a eterno memento del sacrificio:
- un cappotto rosso, di quelli da bambina, colletto a camicia, a un petto o, meglio, doppiopetto stretto, al ginocchio, leggermente svasato, con martingala dietro e spacco;
- un cappotto di cammello (no, non color cammello di lana di cammello), taglio classico a omino fichino, lungo al ginocchio, color cammello o, visto che sogno, double face cammello profilato panna e panna profilato cammello (a quel punto senza bottoni, per forza)
- una borsa a mano bordeaux/borgogna/rubino o come cavolo lo vogliamo chiamare (bon veramente non una, quella, belt bag di Celine)
- un secchiello nero chè poi non si dica che non subisco influenze esterne
- un paio di stivali marroni molto semplici, ma con tacco, diciamo 7, grosso
- un paio di scarpe da tanguera, possibilmente colorate, assurde, ma senza plateau